Riprendiamoci la Cassa

di Marco Bersani (Attac Italia)


La Cassa depositi e prestiti rappresenta uno dei soggetti principali nel processo di privatizzazione dei beni pubblici. A Bologna è proprietaria di tre ex caserme (Sani, Mazzoni e Masini), per le quali ha stipulato un accordo con il Comune che prevede la costruzione di abitazioni, alberghi, parcheggi, supermercati e la distruzione di ampie superfici verdi. Abbiamo chiesto a Marco Bersani di raccontare cosa è Cassa depositi e prestiti e come il suo ruolo originario è radicalmente mutato dopo la sua privatizzazione.


Proviamo ad immaginare.

Una comunità territoriale, grazie al bilancio partecipativo, sceglie democraticamente le priorità d’intervento tra le opere da realizzare nel proprio territorio.

Le opere scelte – un asilo nido, un parco, la messa a norma degli edifici scolastici, la sistemazione idrogeologica del territorio, la ristrutturazione della rete idrica etc. – vengono finanziate attraverso il risparmio degli abitanti depositato in libretti postali e buoni fruttiferi e consegnato alla Cassa Depositi e Prestiti territoriale.

Poiché questi risparmi hanno un rendimento minimo, la Cassa Depositi e Prestiti territoriale potrà finanziare gli interventi con un tasso altrettanto minimo.

La comunità territoriale, proprio perché ha partecipato direttamente alle scelte sulle priorità d’intervento e le ha finanziate con il risparmio dei propri membri, avrà una naturale propensione a controllare che tempi e qualità delle opere realizzate siano le migliori possibili, evitando di per sé sprechi e corruttele.

Avremmo così ottenuto: un aumento della partecipazione e della democrazia basata sull’autogoverno; la realizzazione di opere che abbiano come finalità l’interesse generale; la possibilità di finanziarne la realizzazione fuori dal circuito speculativo del mondo bancario e finanziario; l’aumento del controllo democratico sulle procedure e i lavori di realizzazione, con la conseguente diminuzione di corruzione e sprechi; un’aumentata coesione sociale.

Un circuito virtuoso che potrebbe avvalersi degli oltre 275 miliardi di risparmi che cittadine e cittadini italiani già oggi affidano a Cassa Depositi e Prestiti, ma che vengono utilizzati in tutt’altra direzione e per ben differenti scopi.

Dalla sua istituzione, nel 1850, e per oltre un secolo e mezzo, Cassa Depositi e Prestiti ha avuto un unico compito di enorme utilità sociale: raccogliere e tutelare i risparmi dei cittadini e utilizzare questa enorme massa di denaro per finanziare a tassi agevolati gli investimenti degli enti locali.

Fino al 1990 questa era l’unica ed esclusiva modalità di finanziamento cui i Comuni potevano accedere.

L’avvento delle politiche liberiste ha investito in primo luogo tutto il sistema del credito e in breve tempo l’intero sistema bancario del Paese è stato privatizzato. A quel punto le banche private premettero sui governi per poter entrare dentro un enorme mercato da cui erano escluse: gli investimenti degli enti locali.

È così che, a partire dal 1990, si apre la possibilità ai Comuni di accedere al mercato per potersi finanziare, per arrivare, nel 2003 alla trasformazione di Cassa Depositi e Prestiti in Spa, modificandone profondamente natura e missione.

Da quel momento, Cassa Depositi e Prestiti dismette i panni di soggetto pubblico al servizio dei Comuni e diviene un soggetto di mercato che compete con le banche.

I finanziamenti degli investimenti degli enti locali diventano normali operazioni con tassi di interesse stabiliti dal mercato, e molti Comuni, ancora oggi, si trovano i bilanci gravati da mutui accesi due-tre decenni fa, con tassi di interesse divenuti da “usura”.

Sempre da quel momento il perimetro d’azione di Cassa Depositi e Prestiti si è ampliato a dismisura sino a farla diventare una sorta di “fondo sovrano” non dichiarato che interviene su tutti i settori dell’economia.

Quando parte la stagione della dismissione della ricchezza collettiva in mano ai Comuni, Cassa Depositi e Prestiti si trasforma in partner dei Comuni nella “valorizzazione” del patrimonio pubblico in vendita e in leva finanziaria per la privatizzazione dei servizi pubblici locali, favorendo i processi di aggregazione e accentramento nelle multiutility collocate in Borsa.

Si giunge così alla paradossale chiusura del cerchio: il risparmio dei cittadini viene utilizzato per favorire l’espropriazione degli stessi, sottraendo loro territorio, patrimonio pubblico, beni comuni e servizi pubblici locali.

La battaglia per la socializzazione di Cassa Depositi e Prestiti è dunque fondamentale, da una parte per fermare l’utilizzo dei risparmi delle persone contro i diritti delle stesse; dall’altra, per mettere quelle ingenti risorse al servizio di un altro modello di Comune e di città, socialmente ed ecologicamente orientato.

Una battaglia necessaria, che poggia su alcune riflessioni e domande:

1. La natura dibene comunedella Cassa Depositi e Prestiti risulta evidente dalla semplice considerazione sulla provenienza del suo ingente patrimonio, che per oltre l’80% deriva dalla raccolta postale, ovvero è il frutto del risparmio degli abitanti di questo Paese.

Tale natura è del resto anche giuridicamente sostenuta dall’art.10 del D. M. Economia del 6 ottobre 2004 (decreto attuativo della trasformazione della Cassa Depositi e Prestiti in società per azioni) che così recita : “I finanziamenti della Cassa Depositi e Prestiti rivolti a Stato, Regioni, Enti Locali, enti pubblici e organismi di diritto pubblico, costituiscono ‘servizio di interesse economico generale’“.

2. Il paradosso risiede nel fatto che, mentre si afferma ciò, la Cassa Depositi e Prestiti è stata trasformata in una società per azioni a capitale misto, la cui parte privata è appannaggio delle fondazioni bancarie. Diventa inevitabile la seguente domanda: come possono un ente di diritto privato (tale è la Spa) e soggetti di diritto privato presenti al suo interno, come le fondazioni bancarie, decidere per l’interesse generale?

3. Pur continuando la Cassa Depositi e Prestiti a mantenere, tra i settori principali delle proprie attività, quello “tradizionale” relativo al finanziamento degli investimenti degli enti pubblici, con la trasformazione in Spa, questa attività deve avvenire “assicurando un adeguato ritorno economico agli azionisti”-

Come recita l’art. 30 dello Statuto della società “Gli utili netti annuali risultanti dal bilancio […] saranno assegnati […] alle azioni ordinarie e privilegiate in proporzione al capitale da ciascuna di esse rappresentato”. E le relazioni societarie annuali dichiarano con soddisfazione la chiusura dei bilanci con importanti utili netti, nonché il fatto di aver garantito agli azionisti, dall’avvenuta privatizzazione ad oggi, rendimenti medi annui ben superiori al 10%.

Se l’unità di misura delle scelte di investimento è la redditività economica delle stesse, non diviene evidente il “vulnus” di democrazia rispetto alla loro qualifica di servizio di primario interesse pubblico?

4. Cassa Depositi e Prestiti, da ente con primaria funzione pubblica e sociale è nel tempo divenuta una sorta di “fondo sovrano” che agisce ed interviene in tutti i settori dell’economia e della finanza del Paese. Questa gigantesca trasformazione comporta anch’essa un’ineludibile questione: si può lasciar decidere la strategia industriale di un Paese a una società di diritto privato, libera di perseguire i propri interessi di profitto, qualunque essi siano, nei settori che appaiono più interessanti e senza vincoli di alcun tipo?

E ancora: se questo è il ruolo attuale della Cassa Depositi e Prestiti, è accettabile che le priorità di intervento nel sistema industriale ed economico del Paese non vengano stabilite nelle sedi deputate (il Parlamento) e che i mezzi per perseguirle escano dal controllo pubblico?

5. Con la trasformazione di Cassa Depositi e Prestiti in Spa si pongono problemi rilevanti di diritto all’informazione e di diritto alla partecipazione alle scelte di destinazione degli investimenti.

Se infatti per 150 anni la destinazione al finanziamento degli investimenti degli enti locali territoriali era univoca, conosciuta e condivisa dai detentori dei risparmi, con la trasformazione di Cassa Depositi e Prestiti in società per azioni nasce una questione ineludibile di democrazia partecipativa: i detentori e le detentrici dei risparmi devono avere voce sulla destinazione dei soldi prestati e partecipare all’indirizzo delle scelte sugli investimenti da intraprendere, ad esempio ponendo vincoli di destinazione a finalità sociali ed ambientali degli stessi.

6. In seguito a modifiche statutarie intervenute successivamente alla privatizzazione, il risparmio postale dei cittadini può oggi essere utilizzato anche per il finanziamento di interventi privati. Naturalmente, essendo il risparmio garantito dallo Stato, nessun individuo vede messo a rischio il risparmio individuale depositato. Tuttavia, una riflessione è inevitabile: in caso di finanziamenti di iniziative private che dovessero fallire, la garanzia di copertura dello Stato sul risparmio individuale si tradurrebbe in aumento del debito pubblico (ovvero sarebbe ugualmente scaricata sui cittadini).


Per approfondire, suggeriamo la lettura di questo articolo di Marco Bersani sulla storia di Cassa depositi e prestiti dalla fondazione ad oggi.

Inoltre segnaliamo la campagna “Riprendiamoci il Comune” a sostegno di due proposte di legge di iniziativa popolare per la socializzazione di Cassa depositi e prestiti e per la riforma della finanza locale.

Banca Rotta: l’importante è “partecipare”?

L’Amministrazione bolognese adotta formule come “Immaginazione Civica” e “Innovazione Urbana”, nomi seduttivi per rinnovarsi (nell’immagine) e far sognare… mentre l’esperienza mostra un’altra storia.

Di Banca Rotta SRL – Spazio Relativamente Liberato


C’erano una volta un bando e una “banca rotta”. Il bando è quello che nel dicembre 2018 il Comune di Bologna indìce per l’assegnazione di un locale in via Fioravanti 12 (in Bolognina, nel complesso dell’ex mercato ortofrutticolo), precedentemente occupato da una banca. Nel bando – tecnicamente, un avviso pubblico – viene auspicata «la sperimentazione di forme mutualistiche e collaborative di vicinato proprio al fine di rispondere ai bisogni del quartiere, soprattutto in riferimento ai mutamenti urbani dell’area».
Banca Rotta è il nome del gruppo – composto da dodici realtà associative già attive nel territorio – che decide di partecipare all’avviso pubblico facendo leva sulla forza aggregativa e non competitiva; e che nella proposta presentata delinea la trasformazione di uno spazio abbandonato (l’ex banca) in bene comune per il quartiere, per reagire alla mancanza di luoghi di aggregazione pubblici e aperti in cui poter promuovere cultura, socialità e idee, uno spazio che chiunque possa utilizzare… La proposta piace e Banca Rotta si aggiudica il bando cum laude! Un matrimonio perfetto e… «vissero tutti felici e contenti»? Fine della storia? E invece no: le nozze erano coi fichi secchi.
I locali dell’ex banca sono piccoli, fuori norma, con un piano superiore e uno sotterraneo inagibili, costi di gestione insostenibili… nulla di quanto progettato può davvero realizzarsi in quelle condizioni, in primo luogo l’accessibilità per tutte le persone e dunque l’apertura dello spazio al quartiere. Ma Banca Rotta, forte del vivo apprezzamento per il progetto, confida nell’avvio di una seria “coprogettazione”, proprio per superare questi ostacoli strutturali e dare inizio il prima possibile alla sperimentazione richiesta nel bando.

«Beh... è ovvio che se quello spazio fosse stato in buone condizioni lo avremmo messo a valore, non certo dato a bando!»

Sia beata la sincerità che si respira al Settore Edilizia e Patrimonio, perché proprio questa fu la candida risposta. Ed è forse proprio in questa frase che si riassume tutta intera la politica del territorio di chi governa la città. Una politica socialmente fallimentare, una vera e propria bancarotta delle varie amministrazioni che si sono succedute negli anni: da un lato, progetti di speculazione e gentrificazione faraonici, con sperpero di milioni di euro pubblici in opere incompiute, inutili o ridondanti ma funzionali agli appetiti di pochi. Dall’altro, l’espulsione di abitanti e delle realtà sociali radicate in quartiere. In più, un bel fico secco a ogni esigenza collettiva espressa dal basso, in forme indipendenti e non compatibili con i progetti istituzionali, alla faccia delle verniciature “partecipative”. Esempi lampanti di un simile fallimento sono i tanti sgomberi di spazi sociali e occupazioni abitative, che hanno sempre più desertificato questa città dal punto di vista sociale e culturale e che rivelano quanto l’Amministrazione (che pur si ammanta dello slogan «Resistere è creare»!) sia veramente aperta allo sviluppo di una genuina attività mutualistica che metta in discussione questo sviluppo urbano basato sul mero profitto. È l’esito coerente di una (in)cultura politica che crea mille ostacoli a reali percorsi di partecipazione dal basso, mentre costruisce ponti d’oro agli interessi di gruppi privati (che poi, bisogna ricordarlo, falliscono a loro volta…).

Banca Rotta vuole costruire un libero spazio comunitario e di socialità, perché le parole “immaginazione” e “civica” le piacciono molto (ma le due, insieme, ora molto meno). E allora, perché mai infilarsi nella triste storia dell’immaginazione civica e dell’innovazione urbana, pur criticando la miseria dei locali messi a disposizione dal Comune? Per diverse ragioni che, dopo più di due anni, restano gli assi portanti del progetto (che, ricordiamolo, ha regolarmente vinto quel bando per via Fioravanti 12, con atto esecutivo dal 19/4/2019).

  • Banca Rotta ritiene giusto che lo spazio in via Fioravanti 12 sia reso agibile e a norma, così che tutte le abitanti del Navile e della città possano utilizzarlo. Lo spazio infatti deve essere di tutte e non solo delle associazioni e gruppi informali che lo hanno “vinto” con l’avviso pubblico. Perché questo spazio non è stato ancora reso disponibile?
  • Banca Rotta ha constatato direttamente come l’Amministrazione metta a bando solo spazi in condizioni misere, o per dimensioni minime o per carenze strutturali, mentre centinaia di beni di proprietà pubblica, anche grandi e in buone condizioni, da anni o addirittura da decenni rimangono inutilizzati. Perché il Comune non mette questi spazi a disposizione della collettività?
  • Banca Rotta ritiene giusto che vengano ridiscusse le forme di gestione degli spazi e degli immobili pubblici, che devono essere “ad uso civico” e considerati a tutti gli effetti dei “beni comuni”, perché al netto delle vuote dichiarazioni è necessaria una reale volontà politica di cambiamento. Banca Rotta chiede che si dia vita a un tavolo politico in cui associazioni, collettivi, gruppi della città discutano con l’Amministrazione sulla politica degli spazi pubblici della città in relazione alle esigenze sociali della cittadinanza, sugli spazi autogestiti e su quelli inutilizzati, così da restituirli alla cittadinanza in forme e modi diversi da quelli anacronistici fin ora obbligati dalle burocrazie. Perché si ha paura di coinvolgere davvero la collettività e di ascoltare i bisogni delle varie realtà associative?

Ma questa storia parla anche di una grave incoerenza istituzionale perfino rispetto alle stesse regole di una partecipazione farlocca, un gioco a carte truccate che l’Amministrazione ha imposto dall’inizio e Banca Rotta ha accettato di andare a vedere fino in fondo. Lo spazio è stato ufficialmente assegnato a Banca Rotta, a seguito di un regolare iter amministrativo (l’avviso pubblico) e quindi a termini di legge; ma il padrone di casa è improvvisamente scomparso con le chiavi. Nessuno ha ancora spiegato perché, dopo il passaggio formale dell’assegnazione dello spazio di via Fioravanti 12, e nel bel mezzo di un confronto per definire i dettagli del suo affidamento, dalla sera alla mattina il Comune sia letteralmente sparito; ben tre email (31 gennaio; 26 febbraio, 23 ottobre, posta certificata) inviate nel corso del 2020 sono rimaste senza alcuna risposta. Sarebbe anche una questione di educazione, volendo…
Intanto, nel silenzio imbarazzante dell’Immaginazione al potere, sono passati i mesi, è arrivato il Covid ed è naturale chiedersi cosa Banca Rotta avrebbe potuto fare per il quartiere in termini di mutuo sostegno sociale, se non ci fosse stata quell’ottusa – e finanche poco onorevole – fuga burocratica e politica. Ma tutto questo non può davvero stupire. Il destino degli spazi o beni pubblici a Bologna è sempre stato deciso totalmente dall’alto, senza un canale permanente e serio di consultazione/coprogettazione con le associazioni, i gruppi informali, i collettivi che a Bologna da anni producono cultura, socialità, mutuo aiuto, critica e partecipazione dal basso. Il Laboratorio Spazi, unico strumento previsto per la (teorica) compartecipazione alle decisioni, si è rivelato un misero diversivo privo di qualsiasi potere decisionale. La partecipazione si riduce alla retorica compiacente della «città con te», in realtà un tentativo di incanalare la socialità spontanea in percorsi falsamente orizzontali che conducono a un lieto fine solo se rispettano senza fiatare le compatibilità imposte a priori dall’alto, i compromessi al ribasso e le reciproche convenienze clientelari.
Conclusione? Banca Rotta ha toccato con mano la fuffa dell’innovazione urbana, dell’immaginazione civica e della partecipazione dal basso in questa città; ha attraversato in prima persona il paradosso per cui alla fame di spazi e socialità si risponde solo con le briciole. E alla fine, pur rispettando le regole, nemmeno quelle briciole. Evidentemente Banca Rotta non è più conveniente.

Per continuare a esistere come spazio politico, non disperdere il percorso di convergenza costruito tra diverse soggettività e rilanciare la rivendicazione del bisogno di spazi, a maggio 2021 esce The Banca Rotta, il giornale auto-prodotto che attraverso parole, immagini e diagrammi, racconta in modo esteso, analitico e accessibile una storia che altrimenti sembrerebbe una fiction, anzi… frutto dell’Immaginazione.

Per scaricare la pubblicazione in pdf clicca qui.

I piani nascosti del Comune di Bologna su vaste aree pubbliche

Le ex-aree militari sono una risorsa per il futuro dell’habitat urbano, la cui gestione manca di trasparenza e partecipazione.

di D(i)ritti alla Città


La data è simbolica: 17 gennaio 2020. Quel giorno, nel tardo pomeriggio, in Piazza Maggiore si contrapposero due visioni opposte della città. Nella piazza c’erano centinaia di persone riunite dopo lo sgombero dell’ex caserma Sani che aveva avuto luogo il giorno prima. L’occupazione era durata due mesi ed era nata dopo un altro sgombero, quello di XM24, avvenuto nell’agosto 2019 su iniziativa del Comune di Bologna che aveva deciso di porre fine a un’esperienza di autogestione per la quale aveva concesso spazi di sua proprietà nell’area dell’ex mercato ortofrutticolo.

Contemporaneamente, all’interno di Palazzo d’Accursio, il Sindaco di Bologna e il Ministro della difesa siglavano un accordo per la “rigenerazione” di due grandi ex caserme in disuso, Stamoto e Perotti, che si estendono per circa 200.000 metri quadri tra via Massarenti e il quartiere Fossolo.

Da un lato chi manifestava perché gli spazi pubblici venissero messi a disposizione delle cittadine e dei cittadini, dall’altro chi si occupava della loro privatizzazione.

L’accordo, infatti, è incentrato sulla “valorizzazione” delle aree intesa esclusivamente come strumento di “ritorno economico”. È la stessa “valorizzazione” che è stata applicata ad altre tre ex caserme (Sani, Mazzoni e Masini), che si concretizzerà in palazzi, supermercati, uffici, parcheggi, alberghi, come previsto dall’accordo siglato con Cassa depositi e prestiti.

Il copione è sempre lo stesso: beni pubblici in disuso vengono privatizzati anziché essere destinati a funzioni pubbliche, edifici storici lasciati all’abbandono vengono demoliti e ampi spazi verdi sono destinati ad essere rasi al suolo.

Ci sono altri due aspetti dell’accordo su cui è importante soffermarsi. Il primo è che il Consiglio comunale è stato di fatto esautorato. Infatti l’oggetto principale del testo è l’adozione di variazioni degli strumenti di programmazione e pianificazione urbanistica. Ma i piani territoriali ed urbanistici e le eventuali deroghe sono di esclusiva competenza del Consiglio comunale, che dell’accordo è rimasto all’oscuro.

Ma all’oscuro rimangono tutte le cittadine e i cittadini: infatti l’accordo contiene una clausola di riservatezza che vieta alle parti di divulgare “le informazioni […] acquisite nel corso dell’espletamento delle attività” e il contenuto della “loro collaborazione ai sensi del Protocollo”. In pratica l’accordo, pubblico nella forma, è segreto nella sostanza.

Chi fa parte del tavolo tecnico previsto dal protocollo? Quante volte si è riunito e qual è stato il contenuto degli incontri? A che punto è il progetto di “valorizzazione”? Cosa prevede? Quali sono i tempi di attuazione? Quali variazioni degli strumenti di pianificazione urbanistica sono stati ipotizzati?

Queste domande sono destinate a rimanere senza risposta fino a quando sarà troppo tardi per intervenire. L’accordo svela la falsità dei discorsi sulla “trasparenza” della pubblica amministrazione e sulla “partecipazione”, tanto sbandierata dal Comune di Bologna. Nella realtà, la città deve essere tenuta all’oscuro fino a quando i giochi non saranno fatti. A quel punto il Consiglio comunale sarà chiamato semplicemente a ratificare scelte compiute altrove, e le cittadine e cittadini assisteranno impotenti all’ennesima sottrazione di spazi pubblici e a nuove colate di cemento.

Questo è il discorso dominante sulla gestione del territorio che D(i)ritti alla città vuole rimettere in discussione.

 

foto 1 e 3: Gianluca Rizzello

Mappare i vuoti a Bologna

di Piergiorgio Rocchi, urbanista /


La mappatura tematica di situazioni insediative è un importante strumento di conoscenza del territorio. Si tratta, per fare solo alcuni esempi in fase di realizzazione a Bologna, della mappa dei punti vendita di catene commerciali (L’invasione dei centri commerciali), delle trasformazioni a residenza di locali nati con altre destinazioni (La degenerazione urbana), della sanità privata o delle situazioni di abbandono e degrado. La mappatura consente di mettere a fuoco e di inquadrare tematiche che andrebbero poi affrontate, e risolte, con scelte di pianificazione coerenti e adeguate. È dunque  un lavoro di conoscenza di fenomeni insediativi che con i loro effetti non di rado arrivano ad incidere sulla qualità stessa della vita di una città.

Il Mapping collaborativo, cioè quella pratica che con gli opportuni strumenti cerca di coinvolgere fasce di cittadini nella sua creazione/elaborazione, è dunque uno strumento di democrazia, partecipativo e di condivisione, che gli attivisti hanno per poter censire e valutare le trasformazioni urbane. Wikipedia lo definisce laicamente così: “La mappatura è un modo per organizzare la restituzione grafica di informazioni di varia natura su determinati insiemi di elementi territoriali rispetto a determinati progetti o obiettivi”. O ancora, per dirla con un’esperta del settore, Ilaria Vitellio: “La cartografia digitale ‘aperta’ consente di raccontare i territori e le città alla luce dei bisogni di chi li abita. Uno strumento che rafforza il processo democratico”, non facile da realizzare ma molto diffuso. Cito solo alcune esperienze (tra centinaia in tutto il mondo) come la mappatura di supporto alla lotta contro gli sfratti a San Francisco, quella di Orangotango, quella degli “Iconoclasistas”, o ancora l’esperienza di Napoli con Mappi[na].

La restituzione grafica può essere effettuata attraverso l’uso di determinati prodotti informatici che consentono una sistematizzazione ‘strutturata’ della mole di informazioni rilevate e collegate agli elementi rilevati, sempre in relazione ad un determinato sistema geografico di riferimento e consentono altresì una loro archiviazione in database specifici e una loro collocazione nella rete web.

A Bologna esiste una mappatura dei Vuoti urbani, realizzata in collaborazione con Planimetrie Culturali ApS utilizzando MyMap di Google e successivamente tradotta in un GIS (Geographic Information System). La mappa ha preso in esame – con un lungo lavoro di rilevamento iniziato nel 2017 – numerosi episodi di inutilizzo di edifici e aree che hanno portato spesso a severe condizioni di degrado urbano. La mappatura ha interessato il comune di Bologna e una fascia territoriale intorno alla città relativa a nove comuni. Di ogni caso si è cercato di analizzare:

– la tipologia d’uso originaria (es.: Produttivo, Residenza, Servizi, Terziario, Commerciale, etc), 

– le condizioni in cui si trovava all’atto del rilevamento (rudere, in abbandono, inutilizzato, parzialmente utilizzato, etc.), 

– la proprietà, distinta in due grandi categorie: pubblica e privata. 

Successivamente attraverso l’uso di un GIS (nello specifico Qgis) si è affinato il set di informazioni per ogni caso valutandone la consistenza (metri quadri, metri cubi, superficie territoriale, etc.) e inserendo altri dati identificativi – come i riferimenti catastali, l’indirizzo, etc. – e un riferimento fotografico, creando per ogni singolo elemento una apposita scheda.

Gli elementi rilevati sono stati 637, ai quali vanno aggiunti 47 episodi dei quali è ancora necessario approfondire alcune condizioni al contorno. Un totale dunque di 684 rilevamenti.

Uno degli aspetti più rilevanti nella conduzione metodologica del mapping dei vuoti è l’aggiornamento, il più possibile frequente, che va fatto sugli elementi censiti per ‘manutenere’ il sistema informativo. Significa cioè verificare se e quali eventuali operazioni sono state realizzate sugli episodi che li escludono per la loro natura (demolizioni, ristrutturazioni, riuso, nuova costruzione) dall’elenco dei Vuoti, un caso per tutti la demolizione del circolo 20 Pietre-ex ACI e la realizzazione al suo posto di 35 appartamenti.

Ad oggi esperite queste modalità di manutenzione, i ‘vuoti’ assommano a 547. Di questi 364 (67%) sono proprietà privata (compresa la Curia), e 183 (33%) sono di proprietà pubblica (sotto questo termine ricadono il Comune, le Poste, enti vari e USL).

Di questi, vuoti, 133 (il 28%) erano “produttivi”, 120 (il 25 %) erano “residenziali”, 40 dei quali pubblici, 89 (18,5%), erano edifici rurali, 81 (il 14,8% erano edifici per servizi, dei quali 10 scuole).

Il quartiere con più ‘Vuoti’ è il Navile (132), seguito da San Donato-San Vitale (95), da Borgo-Reno (82), Porto Saragozza (81), Santo Stefano (52) e Savena (27). Nei comuni della cintura sono 78. Il quartiere con la più alta percentuale di Vuoti pubblici è il Costa Saragozza  con 52 elementi.

Dei 547 vuoti rilevati fino ad ottobre 2021, 246 (45%), sono “in abbandono” e 276 “inutilizzati” (50%). La distinzione tra le 2 categorie è data dal grado di abbandono, per inutilizzati si intendono edifici vuoti, quasi sempre sul mercato immobiliare e non ancora in condizioni di degrado come i primi.

Complessivamente gli elementi censiti avevano una consistenza volumetrica di 5.309.201  metri cubi, interessavano una superficie territoriale di 355 ettari per una superficie utile lorda di 1.079.902 metri quadrati.

Il quadro delineato dal censimento, pur coi limiti derivanti dalla natura di volontariato e dalle modeste risorse disponibili, delinea un quadro preoccupante, ovvero il quadro di una città che progressivamente viene abbandonata  perché non più funzionale all’estrazione di rendite. Va detto che risulta essere in atto un processo di valorizzazione di numerosi siti censiti come abbandonati o inutilizzati, processo largamente supportato dagli strumenti urbanistici esistenti, mentre il fenomeno in sé viene sottovalutato dagli estensori dell’ultimo piano comunale, il PUG, proposta 2020, là dove si afferma (approfondimenti conoscitivi, scheda 25  aree e edifici dismessi) che gli edifici in abbandono sono 150.

Come privatizzare le aree pubbliche dismesse fingendo di “rigenerarle”*

di Mauro Boarelli /


Il tema delle aree pubbliche dismesse e della loro “rigenerazione” è di grande rilevanza in tutto il paese. A Bologna, alla vigilia delle elezioni locali, l’amministrazione comunale guidata dal Pd ha approvato in tutta fretta e senza alcun dibattito pubblico un accordo con Cassa depositi e prestiti Immobiliare relativo a tre ex caserme che avrà un impatto enorme, sia per la ricaduta immediata sulle zone interessate sia perché questa impostazione farà da apripista ad ulteriori interventi in programma nel prossimo futuro su altre aree attualmente in disuso.

Una breve descrizione può rendere l’idea della filosofia e delle implicazioni del nuovo progetto urbanistico e suggerire alcune riflessioni di carattere generale, valide anche al di fuori dell’ambito locale.

L’ex caserma Sani, situata tra la zona fieristica e il quartiere popolare della Bolognina, occupa un’area di 10,5 ettari, definitivamente dismessa alla fine degli anni ‘90 e dichiarata di interesse storico e artistico in base al Codice dei beni culturali. Nel piano regolatore del 1989 era stata destinata a parco pubblico, a compensazione dei pesanti insediamenti di abitazioni ed uffici previsti nella zona. Ma con il passare degli anni gli strumenti urbanistici decadono, le opere destinate alla collettività rimaste sulla carta vengono definitivamente dimenticate e le loro ragioni rovesciate, al punto che oggi si prevede di costruire in quel luogo abitazioni, edifici direzionali, commerciali e ricettivi perché tali usi – si legge nell’accordo – sono “destinati ad intercettare differenti tipi di domanda e [sono] tali da incidere favorevolmente sulla composizione sociale del contesto”. Quale sia questa incidenza favorevole non è dato sapere. Di sicuro il parco già esistente verrà quasi completamente distrutto. Infatti, verranno abbattuti 371 alberi sani, di cui 195 tutelati ed altri 47 classificati come “di grande rilevanza”.

Per quanto riguarda le abitazioni, si estenderanno tra 19.760 mq e 24.820 mq. All’edilizia residenziale sociale verrà riservata una quota modesta, pari al 20% (la stessa relazione descrittiva del progetto ricorda che il Piano urbanistico generale del Comune di Bologna prevede una quota del 30%, ma afferma candidamente che tali indicazioni “non possono essere pienamente soddisfatte per non compromettere l’equilibrio finanziario dell’operazione di rigenerazione”). A questo si aggiungono gli usi direzionali, turistico-ricettivi e commerciali che, in uno degli scenari prospettati, potranno estendersi fino a circa 13.000 mq.

Tre edifici storici verranno ceduti al Comune, per una superficie complessiva di 3.021 mq (un’inezia rispetto agli edifici privati). Per i due edifici più grandi, il Comune dichiara nei documenti ufficiali di non avere ancora alcuna idea sulla loro destinazione, e questo la dice lunga sulla priorità riservata alla progettazione di funzioni pubbliche. Ha invece le idee chiarissime sul terzo edificio, che verrà adibito a “Centro civico”: qualsiasi cosa significhi questa denominazione generica, è difficile immaginarla racchiusa in soli 68 mq.

Per un breve periodo la vicenda della caserma si è intrecciata con quella dell’XM24, spazio autogestito presso l’ex mercato ortofrutticolo nel quartiere Bolognina, di proprietà comunale. Improvvisamente il Comune decide che la convenzione deve essere revocata e nell’agosto 2019 – dopo 17 anni di attività – fa sgomberare i locali dalla polizia, guadagnandosi il plauso del Ministro dell’interno Salvini. L’accordo siglato in Prefettura che impegnava il Comune a individuare nuovi spazi entro il 15 novembre rimane lettera morta, e nel giorno della sua scadenza gli attivisti occupano l’ex caserma Sani e la aprono alla città. L’esperienza durerà solo due mesi, interrotta da un nuovo sgombero. In quel periodo era stato avviato un interessante percorso di elaborazione collettiva intorno all’uso degli spazi pubblici che aveva coinvolto numerose persone e realtà associative estremamente eterogenee, proseguito fino all’interruzione causata dalla pandemia.

L’ex caserma Mazzoni, dismessa nel 2005, si estende per circa 46.000 mq nella periferia sud-orientale della città. Gli edifici storici verranno quasi completamente abbattuti. Verranno costruite abitazioni private per una superficie complessiva di 21.000 mq (anche in questo caso la quota di edilizia residenziale sociale è indicata al 20%), parcheggi ed esercizi commerciali. L’accordo sostiene che il progetto “si pone l’obiettivo principale di restituire ai cittadini un’importante porzione del territorio”. È difficile rintracciare la sostanza di questa “restituzione”, dal momento che non sono previste funzioni pubbliche ad eccezione di un parco, spuntato all’ultimo momento per placare le proteste dei cittadini e per il quale – trattandosi di nuove alberature – bisognerà aspettare parecchio. Nel frattempo verranno abbattuti 144 alberi sani, di cui 36 tutelati.

Infine la caserma Masini, complesso di edifici vincolati per il valore storico-artistico che occupano circa 7.500 mq nel centro storico. Lo spazio è stato occupato nel 2012 dal collettivo Làbas, e per cinque anni è diventato un punto di riferimento e socialità per il quartiere, anche per la presenza di uno dei mercati contadini di “Campi aperti”. Dopo lo sgombero, nell’agosto 2017, è rimasto di nuovo abbandonato. Non esiste un progetto definitivo, ma se verrà ripreso quanto già previsto nel precedente Piano operativo (nel frattempo decaduto) verranno costruite abitazioni private e un albergo (circa 9.000 mq) e – forse – un parcheggio interrato.

Non si tratta delle uniche aree militari che daranno luogo nei prossimi anni a profonde trasformazioni urbanistiche. Nel gennaio 2020, infatti, il Comune di Bologna ha siglato un protocollo con il Ministero della Difesa a proposito di altre due grandi ex caserme, Perotti e Stamoto. Il protocollo prevede una clausola di riservatezza che impegna le parti a trattare le informazioni relative a questi luoghi come “strettamente riservate” e a non rivelare a nessuno i contenuti della loro collaborazione. In pratica, nonostante la retorica sulla trasparenza della pubblica amministrazione, si sta lavorando in gran segreto ad un’operazione di enorme portata e nulla lascia presagire che il copione sarà diverso rispetto a quello recitato in questi giorni, quando i consiglieri comunali hanno ricevuto con scarso preavviso una mole enorme di documenti senza avere la possibilità di esaminarli e discuterli in modo approfondito e i membri della maggioranza hanno approvato disciplinatamente e senza fiatare.

Nessuno sembra essere sfiorato da una idea tanto semplice quanto politicamente dirompente: le aree militari dismesse sono di proprietà pubblica, cessate le funzioni originarie devono rimanere pubbliche ed essere destinate nella loro interezza a funzioni pubbliche, salvaguardando gli edifici storici e incrementando il verde già esistente. Se la funzione prevalente cambia, quelle aree vengono di fatto privatizzate, e nessun parco o giardino residuale, nessun “centro civico” improvvisato può compensare la perdita secca che la città subisce in termini di spazi pubblici, verde, memoria storica, possibilità di creare luoghi autogestiti.

Gli amministratori pubblici danno invece per scontato che il recupero di queste aree dismesse passi obbligatoriamente attraverso vaste operazioni immobiliari. Questo schema è dettato come l’unica strada possibile, ed è organizzato intorno ad una parola magica, valorizzazione, utilizzata impropriamente nel senso esclusivo di attribuire ai beni un valore economico e ricavarne un guadagno (la cui fetta più grande – però – non andrà ai soggetti pubblici, ma agli investitori privati). Viene esclusa in tal modo la possibilità di valorizzare la ricaduta sociale che potrebbe avere un’operazione di recupero orientata ai bisogni della collettività.

Questa riduzione alla pura e semplice monetizzazione di un concetto che dovrebbe avere connotazioni ben più ampie si accompagna al meccanismo perverso del contributo premiale che gli enti locali, in base ad una legge del 2001, ricevono per ogni bene oggetto di valorizzazione. I Comuni sono quindi spinti a concludere accordi per rimpinguare le proprie casse. Il risultato, comunque, è modesto. Nel caso della Caserma Mazzoni, ad esempio, il Comune riceverà 332.741 euro, ben poco rispetto alla posta in gioco.

Ci sono altri beni pubblici per i quali, invece, il Comune è disposto a spendere, e anche parecchio. È il caso dello stadio, per la cui ristrutturazione – progettata e realizzata da un soggetto privato, il Bologna F.C. spa – il Comune parteciperà con una quota di 40 milioni di euro. Un impegno estremamente rilevante, del tutto inedito rispetto al totale disinvestimento verso molti beni pregiati di proprietà comunale, tra cui ville storiche ed edifici rurali inutilizzati da decenni e abbandonati al degrado.

Rispetto ai beni pubblici vengono quindi adoperati pesi e misure diversi a seconda dei soggetti e degli interessi in campo: a volte il Comune agisce come generoso finanziatore, alte volte come semplice agente di riscossione. Ma ciò che unisce questi comportamenti apparentemente contraddittori è la subordinazione degli interessi pubblici a quelli privati, l’abbandono di qualsiasi prospettiva di programmazione urbanistica in favore di un disordinato affastellarsi di nuovi quartieri residenziali, la sostituzione dei processi partecipativi con percorsi addomesticati dall’esito già scritto che sottraggono potere ai cittadini fingendo di attribuirne. Si tratta, in sostanza, dell’abdicazione al proprio ruolo politico.

* Questo articolo è stato originariamente pubblicato su NapoliMonitor, che ringraziamo per averne autorizzato la riproduzione

MANIFESTO PER GLI SPAZI PUBBLICI DISMESSI

Bologna ha bisogno di una rete diffusa di spazi pubblici. Spazi per l’incontro e la socialità, le produzioni culturali indipendenti, le attività sportive, il gioco delle bambine e dei bambini, la medicina preventiva, il piccolo commercio di vicinato, l’artigianato. Spazi per dare una casa a chi non ce l’ha, per la vita quotidiana, le relazioni, la comunità.
Negli ultimi anni abbiamo assistito alla progressiva riduzione di questi spazi. I quartieri sono stati privati di funzioni vitali, il tessuto sociale è stato frammentato, lo spazio privato è diventato prevalente sulla città pubblica: la socialità è sempre più confinata nei luoghi di consumo, gli spazi autogestiti sono stati sgomberati e lasciati alla polvere, il diritto alla casa è messo a rischio da un mercato degli affitti sempre più selettivo e dall’assenza di regole sul turismo, il commercio di vicinato è da tempo schiacciato dalla grande distribuzione.
Un aspetto di questo impoverimento dello spazio urbano è rappresentato dagli spazi pubblici abbandonati. La città ne è piena: caserme (con annesse ampie aree verdi), edifici residenziali, case rurali, negozi, aree ferroviarie. Luoghi di proprietà pubblica che – una volta esaurite le funzioni originarie – sono stati lasciati nell’abbandono. Luoghi che appartengono a soggetti diversi: Comune, Città metropolitana, Università, Cassa depositi e prestiti, Agenzia del Demanio, Invimit, Ministero della difesa, Asl, Azienda ospedaliera, Asp, Poste, Inps, Ferrovie dello Stato. Indipendentemente dalla loro natura giuridica, il patrimonio che questi enti amministrano è pubblico e la comunità chiede che non venga privatizzato.
I primi segnali mostrano, invece, che l’obiettivo è proprio questo. Il Comune ha già concluso un accordo con Cassa depositi e prestiti per tre ex caserme (Sani, Mazzoni e Masini) che prevede la demolizione dei vecchi edifici, l’abbattimento di gran parte degli alberi e la costruzione di abitazioni private, supermercati, alberghi, parcheggi. Inoltre, ha stipulato con il Ministero della Difesa un accordo relativo ad altre due aree militari (Perotti e Stamoto) che impone alle parti di non divulgare i contenuti delle trattative in corso: nonostante la retorica della “trasparenza” della pubblica amministrazione, la comunità locale viene tenuta all’oscuro dei progetti che la riguardano.
Ci sono, inoltre, numerosi spazi abbandonati di proprietà privata che potrebbero essere orientati verso una destinazione pubblica, attraverso accordi e incentivi. Si stima che in città ci siano almeno 200 edifici abbandonati, alcuni dei quali
dotati di estese aree verdi. Oltre il 40% è di proprietà pubblica. Si tratta di dati parziali, a causa dell’assenza di un registro completo e accessibile.
La città, in definitiva, è piena di vuoti. Su di essi si giocherà nell’immediato futuro una partita importante. Pezzi rilevanti dello spazio urbano cambieranno volto, la città intera ne uscirà trasformata. Gli interessi in gioco sono molti, nessuno di questi ha tra i propri scopi il bene comune. Per fare in modo che a prevalere siano gli interessi pubblici, i bisogni delle cittadine e dei cittadini, la forma e la sostanza della città pubblica, occorre rivendicare alcuni principi:

1. Le aree e gli edifici pubblici devono rimanere integralmente di proprietà pubblica e messi a disposizione della collettività, e deve essere agevolato il riuso pubblico di edifici privati abbandonati;

Nella narrazione corrente, viene dato per scontato che un bene pubblico, per il solo fatto di avere esaurito la funzione originaria, divenga automaticamente disponibile alla privatizzazione. Si tratta di beni che appartengono alla collettività, e come tali devono essere salvaguardati e adibiti a funzioni pubbliche. Il Comune rappresenta interessi pubblici, il suo ruolo non è quello di farsi garante di speculazioni private. I piani di vendita devono essere cancellati e gli accordi stipulati devono essere rinegoziati. Inoltre, bisogna incentivare il riuso degli spazi dismessi di proprietà pubblica e privata e curarne la redditività sociale lasciando la gestione alle comunità di riferimento sul territorio, in grado di trasformarli in beni comuni attraverso la loro azione di aggregazione e cura.

2. La valorizzazione delle aree pubbliche non passa attraverso la creazione di un mercato immobiliare, ma si realizza attraverso la loro destinazione sociale;

Viene continuamente affermato che la riconversione delle aree dismesse passa attraverso la loro “valorizzazione”. Questo termine viene usato esclusivamente nel senso che occorre ricavare denaro da soggetti privati che – a loro volta – ne guadagneranno molto di più dalla vendita a caro prezzo degli immobili realizzati, secondo la logica della speculazione edilizia. Ad uscirne impoverita sarà l’intera comunità, privata di una parte della sua ricchezza. La misura di un bene pubblico non è monetaria, ma deriva dal benessere immateriale che genera nei confronti dei cittadini.

3. Le aree pubbliche devono accogliere una molteplicità di spazi attraverso i quali le cittadine e i cittadini possano soddisfare i propri bisogni;

Per questo sono necessari luoghi di socializzazione liberi dall’obbligo del consumo, spazi di produzione culturale indipendente, luoghi di studio e formazione, abitazioni pubbliche ad affitto parametrato al reddito, luoghi per lo sport popolare, per la medicina di comunità e la partecipazione attiva di persone in condizioni di fragilità, mercati contadini a vendita diretta, negozi di vicinato, laboratori artigianali. Per lo stesso motivo le aree pubbliche non devono essere adibite a tutto ciò che deriva dalla mera logica del profitto: abitazioni private in vendita o ad affitto libero, centri direzionali, centri commerciali e negozi di grandi dimensioni o facenti parte di catene nazionali e internazionali.

4. Gli usi delle aree pubbliche dismesse devono essere decisi attraverso forme di partecipazione reale che attribuiscano alle cittadine e ai cittadini poteri effettivi nella decisione, nella progettazione e nella gestione;

Il Comune di Bologna ha promosso negli ultimi anni processi di partecipazione addomesticati che annullano il potere decisionale della comunità. Vanno quindi respinti tutti i percorsi il cui esito finale sia già stato preordinato e che riservino alle cittadine e ai cittadini un ruolo subordinato finalizzato ad aggiustamenti di carattere secondario di progetti decisi altrove, o che siano concepiti in modo strumentale da parte di liste e partiti alla ricerca di consenso.

5. Nella progettazione degli spazi pubblici deve essere dato ampio spazio alle forme di auto-organizzazione e autogestione;

A Bologna sono nate diverse esperienze di autogestione di luoghi pubblici, molte delle quali cancellate dall’amministrazione comunale per lasciare spazio a progetti speculativi. Occorre riconoscere le pratiche di autogestione collettiva esistenti e rispettare il principio di autodeterminazione delle libere ed informali realtà associative, senza imporre forme standardizzate di organizzazione e rappresentanza. Gli spazi dismessi devono diventare l’occasione di moltiplicazione delle forme di autogestione.

6. Gli edifici di valore storico non devono essere abbattuti, ma restaurati e adibiti ad uso pubblico;

Gli edifici abbandonati hanno spesso un valore per la storia e la memoria della comunità che va salvaguardato con progetti di rigenerazione e riuso realizzabili anche attraverso azioni di autorecupero.

7. Il verde esistente va conservato per preservare l’ecosistema urbano;

I progetti approvati finora su alcune aree militari dismesse prevedono devastanti abbattimenti di alberi. Il verde esistente, anche nella sua forma spontanea, deve essere tutelato e messo a disposizione dei cittadini. Non sono le compensazioni a tutelare l’ecosistema, ma la preservazione di quanto esiste.

8. Devono essere stanziate adeguate risorse economiche per il riuso delle aree pubbliche e per incentivare soggetti privati che intendano mettere a disposizione i propri beni per usi pubblici, anche in forma transitoria.

I bilanci comunali presentano sempre consistenti avanzi di amministrazione. Nell’ultimo quinquennio ammontano complessivamente ad oltre 300 milioni di euro. Una quota dell’avanzo annuale può essere destinata al recupero degli spazi pubblici e privati dismessi, verso i quali dovrebbe essere dirottata anche una parte dei fondi del PNRR.

Questo manifesto è stato redatto da persone, realtà associative, collettivi indipendenti e reti cittadine attive da anni in città in campo politico e sociale ed è aperto alla sottoscrizione, in forma individuale o associata, di quanti ne condividano i contenuti.

Il Manifesto è promosso da Banca Rotta con Venti Pietre, XM24, Circolo Granma, Concibò.
Sottoscritto da: Rent Strike Bolognina, Comitato Mostri urbani di via Saliceto, Pratello R’Esiste, Campi Aperti, Camilla-Emporio di comunità, Comitato Rigenerazione no speculazione-Prati di Caprara, Centro salute internazionale, ExAequo bottega del mondo, Asia-Usb, Cambiare Rotta.