Come privatizzare le aree pubbliche dismesse fingendo di “rigenerarle”*

disegno di Giulia Cassandra cianca

di Mauro Boarelli /


Il tema delle aree pubbliche dismesse e della loro “rigenerazione” è di grande rilevanza in tutto il paese. A Bologna, alla vigilia delle elezioni locali, l’amministrazione comunale guidata dal Pd ha approvato in tutta fretta e senza alcun dibattito pubblico un accordo con Cassa depositi e prestiti Immobiliare relativo a tre ex caserme che avrà un impatto enorme, sia per la ricaduta immediata sulle zone interessate sia perché questa impostazione farà da apripista ad ulteriori interventi in programma nel prossimo futuro su altre aree attualmente in disuso.

Una breve descrizione può rendere l’idea della filosofia e delle implicazioni del nuovo progetto urbanistico e suggerire alcune riflessioni di carattere generale, valide anche al di fuori dell’ambito locale.

L’ex caserma Sani, situata tra la zona fieristica e il quartiere popolare della Bolognina, occupa un’area di 10,5 ettari, definitivamente dismessa alla fine degli anni ‘90 e dichiarata di interesse storico e artistico in base al Codice dei beni culturali. Nel piano regolatore del 1989 era stata destinata a parco pubblico, a compensazione dei pesanti insediamenti di abitazioni ed uffici previsti nella zona. Ma con il passare degli anni gli strumenti urbanistici decadono, le opere destinate alla collettività rimaste sulla carta vengono definitivamente dimenticate e le loro ragioni rovesciate, al punto che oggi si prevede di costruire in quel luogo abitazioni, edifici direzionali, commerciali e ricettivi perché tali usi – si legge nell’accordo – sono “destinati ad intercettare differenti tipi di domanda e [sono] tali da incidere favorevolmente sulla composizione sociale del contesto”. Quale sia questa incidenza favorevole non è dato sapere. Di sicuro il parco già esistente verrà quasi completamente distrutto. Infatti, verranno abbattuti 371 alberi sani, di cui 195 tutelati ed altri 47 classificati come “di grande rilevanza”.

Per quanto riguarda le abitazioni, si estenderanno tra 19.760 mq e 24.820 mq. All’edilizia residenziale sociale verrà riservata una quota modesta, pari al 20% (la stessa relazione descrittiva del progetto ricorda che il Piano urbanistico generale del Comune di Bologna prevede una quota del 30%, ma afferma candidamente che tali indicazioni “non possono essere pienamente soddisfatte per non compromettere l’equilibrio finanziario dell’operazione di rigenerazione”). A questo si aggiungono gli usi direzionali, turistico-ricettivi e commerciali che, in uno degli scenari prospettati, potranno estendersi fino a circa 13.000 mq.

Tre edifici storici verranno ceduti al Comune, per una superficie complessiva di 3.021 mq (un’inezia rispetto agli edifici privati). Per i due edifici più grandi, il Comune dichiara nei documenti ufficiali di non avere ancora alcuna idea sulla loro destinazione, e questo la dice lunga sulla priorità riservata alla progettazione di funzioni pubbliche. Ha invece le idee chiarissime sul terzo edificio, che verrà adibito a “Centro civico”: qualsiasi cosa significhi questa denominazione generica, è difficile immaginarla racchiusa in soli 68 mq.

Per un breve periodo la vicenda della caserma si è intrecciata con quella dell’XM24, spazio autogestito presso l’ex mercato ortofrutticolo nel quartiere Bolognina, di proprietà comunale. Improvvisamente il Comune decide che la convenzione deve essere revocata e nell’agosto 2019 – dopo 17 anni di attività – fa sgomberare i locali dalla polizia, guadagnandosi il plauso del Ministro dell’interno Salvini. L’accordo siglato in Prefettura che impegnava il Comune a individuare nuovi spazi entro il 15 novembre rimane lettera morta, e nel giorno della sua scadenza gli attivisti occupano l’ex caserma Sani e la aprono alla città. L’esperienza durerà solo due mesi, interrotta da un nuovo sgombero. In quel periodo era stato avviato un interessante percorso di elaborazione collettiva intorno all’uso degli spazi pubblici che aveva coinvolto numerose persone e realtà associative estremamente eterogenee, proseguito fino all’interruzione causata dalla pandemia.

L’ex caserma Mazzoni, dismessa nel 2005, si estende per circa 46.000 mq nella periferia sud-orientale della città. Gli edifici storici verranno quasi completamente abbattuti. Verranno costruite abitazioni private per una superficie complessiva di 21.000 mq (anche in questo caso la quota di edilizia residenziale sociale è indicata al 20%), parcheggi ed esercizi commerciali. L’accordo sostiene che il progetto “si pone l’obiettivo principale di restituire ai cittadini un’importante porzione del territorio”. È difficile rintracciare la sostanza di questa “restituzione”, dal momento che non sono previste funzioni pubbliche ad eccezione di un parco, spuntato all’ultimo momento per placare le proteste dei cittadini e per il quale – trattandosi di nuove alberature – bisognerà aspettare parecchio. Nel frattempo verranno abbattuti 144 alberi sani, di cui 36 tutelati.

Infine la caserma Masini, complesso di edifici vincolati per il valore storico-artistico che occupano circa 7.500 mq nel centro storico. Lo spazio è stato occupato nel 2012 dal collettivo Làbas, e per cinque anni è diventato un punto di riferimento e socialità per il quartiere, anche per la presenza di uno dei mercati contadini di “Campi aperti”. Dopo lo sgombero, nell’agosto 2017, è rimasto di nuovo abbandonato. Non esiste un progetto definitivo, ma se verrà ripreso quanto già previsto nel precedente Piano operativo (nel frattempo decaduto) verranno costruite abitazioni private e un albergo (circa 9.000 mq) e – forse – un parcheggio interrato.

Non si tratta delle uniche aree militari che daranno luogo nei prossimi anni a profonde trasformazioni urbanistiche. Nel gennaio 2020, infatti, il Comune di Bologna ha siglato un protocollo con il Ministero della Difesa a proposito di altre due grandi ex caserme, Perotti e Stamoto. Il protocollo prevede una clausola di riservatezza che impegna le parti a trattare le informazioni relative a questi luoghi come “strettamente riservate” e a non rivelare a nessuno i contenuti della loro collaborazione. In pratica, nonostante la retorica sulla trasparenza della pubblica amministrazione, si sta lavorando in gran segreto ad un’operazione di enorme portata e nulla lascia presagire che il copione sarà diverso rispetto a quello recitato in questi giorni, quando i consiglieri comunali hanno ricevuto con scarso preavviso una mole enorme di documenti senza avere la possibilità di esaminarli e discuterli in modo approfondito e i membri della maggioranza hanno approvato disciplinatamente e senza fiatare.

Nessuno sembra essere sfiorato da una idea tanto semplice quanto politicamente dirompente: le aree militari dismesse sono di proprietà pubblica, cessate le funzioni originarie devono rimanere pubbliche ed essere destinate nella loro interezza a funzioni pubbliche, salvaguardando gli edifici storici e incrementando il verde già esistente. Se la funzione prevalente cambia, quelle aree vengono di fatto privatizzate, e nessun parco o giardino residuale, nessun “centro civico” improvvisato può compensare la perdita secca che la città subisce in termini di spazi pubblici, verde, memoria storica, possibilità di creare luoghi autogestiti.

Gli amministratori pubblici danno invece per scontato che il recupero di queste aree dismesse passi obbligatoriamente attraverso vaste operazioni immobiliari. Questo schema è dettato come l’unica strada possibile, ed è organizzato intorno ad una parola magica, valorizzazione, utilizzata impropriamente nel senso esclusivo di attribuire ai beni un valore economico e ricavarne un guadagno (la cui fetta più grande – però – non andrà ai soggetti pubblici, ma agli investitori privati). Viene esclusa in tal modo la possibilità di valorizzare la ricaduta sociale che potrebbe avere un’operazione di recupero orientata ai bisogni della collettività.

Questa riduzione alla pura e semplice monetizzazione di un concetto che dovrebbe avere connotazioni ben più ampie si accompagna al meccanismo perverso del contributo premiale che gli enti locali, in base ad una legge del 2001, ricevono per ogni bene oggetto di valorizzazione. I Comuni sono quindi spinti a concludere accordi per rimpinguare le proprie casse. Il risultato, comunque, è modesto. Nel caso della Caserma Mazzoni, ad esempio, il Comune riceverà 332.741 euro, ben poco rispetto alla posta in gioco.

Ci sono altri beni pubblici per i quali, invece, il Comune è disposto a spendere, e anche parecchio. È il caso dello stadio, per la cui ristrutturazione – progettata e realizzata da un soggetto privato, il Bologna F.C. spa – il Comune parteciperà con una quota di 40 milioni di euro. Un impegno estremamente rilevante, del tutto inedito rispetto al totale disinvestimento verso molti beni pregiati di proprietà comunale, tra cui ville storiche ed edifici rurali inutilizzati da decenni e abbandonati al degrado.

Rispetto ai beni pubblici vengono quindi adoperati pesi e misure diversi a seconda dei soggetti e degli interessi in campo: a volte il Comune agisce come generoso finanziatore, alte volte come semplice agente di riscossione. Ma ciò che unisce questi comportamenti apparentemente contraddittori è la subordinazione degli interessi pubblici a quelli privati, l’abbandono di qualsiasi prospettiva di programmazione urbanistica in favore di un disordinato affastellarsi di nuovi quartieri residenziali, la sostituzione dei processi partecipativi con percorsi addomesticati dall’esito già scritto che sottraggono potere ai cittadini fingendo di attribuirne. Si tratta, in sostanza, dell’abdicazione al proprio ruolo politico.

* Questo articolo è stato originariamente pubblicato su NapoliMonitor, che ringraziamo per averne autorizzato la riproduzione